Attenzione all’ambiente e potenzialità del turismo lento:
ne parliamo con il professore Giorgio Daidola
Per il mese di ottobre abbiamo scelto di farci accompagnare da un tema tanto importante quanto attuale, quello dell’attenzione nei confronti dell’ambiente, della sostenibilità e delle potenzialità racchiuse nel turismo lento.
Per l’occasione abbiamo intervistato un esperto: il torinese Giorgio Daidola, classe 1943, docente di Analisi Economico Finanziaria per le Imprese Turistiche presso l’Università di Trento. Testimonial del marchio Montura, pubblicista iscritto all’Ordine dei giornalisti e maestro di sci, per anni è stato direttore della Rivista della Montagna e dell’annuario Dimensione Sci. Nel tempo ha pubblicato articoli e fotografie su tutte le più prestigiose riviste di outdoor italiane, francesi, spagnole, norvegesi, australiane e statunitensi. Ha partecipato come regista e come attore a parecchi film di sci e di montagna premiati nei principali festival.
Oggi collabora con le più importanti riviste italiane di montagna (SkiAlper, Le Montagne Incantate, Montagne360, Meridiani Montagne) e di vela (Bolina).
Giorgio Daidola, prima di tutto una domanda al professore: in nome del turismo e dell’economia in passato, penso in particolare agli anni ’80, si è costruito senza molto discrimine. È aumentata oggi l’attenzione al paesaggio da parte dell’industria turistica e di quella edile nelle località turistiche?
“Penso che l’aumento di attenzione al paesaggio, ammesso che ci sia, non è sufficiente e soprattutto è poco genuino, nel senso che è dettato dal tentativo di accaparrarsi da un lato le simpatie degli ambientalisti e dall’altro quelli di piccoli ma importanti segmenti di clientela sensibile ad un turismo più genuino. I risultati di questo aumento di attenzione da parte dell’industria turistica risultano spesso piuttosto goffi. Manca infatti una formazione storico-culturale di fondo nei cosiddetti “strateghi” dello sviluppo del turismo di massa. Manca una capacità di distinguere tra qualità aziendale – data da comfort, facilità e sicurezza – e qualità emozionale del turismo. Ossia tra qualità costruita e qualità vera dell’esperienza turistica. Si continua a puntare sulla prima, credendo che essa conglobi la seconda. Ma non è così. Le emozioni “provocate” artificialmente, attraverso lunapark e aree gioco, sono tutt’altra cosa rispetto a quelle vere”.
Attenzione all’ambiente, turismo lento e sostenibile: che potenziale ha per il portafogli delle imprese, delle località e degli enti turistici montani?
“Assolutamente sì! Uno dei motivi principali che mi ha fatto appassionare a questa disciplina è stata infatti la possibilità di raggiungere luoghi che, frequentando solo gli impianti di risalita, mai avrei scoperto. Il bello dello Sci Alpinismo è proprio questo: poter raggiungere luoghi non accessibili facilmente a tuttiIl turismo “morbido” permette livelli di reddito più che dignitosi per gli operatori ma non potrà mai creare dei superprofitti come l’attuale turismo di massa, che va a braccetto con le attività speculative e in particolare con quelle immobiliari.
Il turismo morbido è un turismo decisamente gratificante sia per l’offerta che per la domanda, ma non potrà mai essere un turismo dai grandi numeri. Le masse cittadine hanno raggiunto livelli quantitativi esplosivi, impensabili solo cento anni fa. Per queste masse occorre trovare tipologie di vacanze che il turismo morbido non è in grado di offrire, in quanto i territori che ne sono interessati sono fragili e non adatti ai grandi numeri. Per soddisfare le masse è necessario sviluppare attività di svago e sportive di tipo urbano, attraverso lunapark turistici sempre più grandi, sia al mare che in montagna. Questi lunapark possono essere considerati dei necessari “siti sacrificali” in cui concentrare il degrado”.
Perché le istituzioni sono sempre più propense a finanziare progetti volti alla creazione del nuovo anziché alla cura del vecchio, cioè alla manutenzione?
“Penso ci sia mancanza di una seria preparazione culturale e di una sensibilità al bello degli artefici dello sviluppo turistico, siano essi uomini politici (di ogni sponda), oppure operatori. Questo spiega la tendenza a privilegiare il nuovo anziché il restauro del vecchio.
Penso che i politici, attraverso un’interpretazione “distorta” della democrazia, prendano in genere decisioni in base al numero di voti che esse possono generare a loro favore nelle elezioni. Questo porta loro a fare promesse – strade, infrastrutture, approvazione di progetti immobiliari, costruzione di impianti di risalita – e contribuire anche finanziariamente a sostenere un turismo di massa offensivo dell’ambiente e della storia dei luoghi, ma in grado di arricchire facilmente le popolazioni locali. Storia e cultura vengono chiuse nei musei o ridotte a manifestazioni folkloristiche attraverso operazioni spesso maldestre che non riescono a nascondere gli obiettivi prioritari dello sviluppo di un turismo aggressivo e irrispettoso. L’aspetto peggiore di queste politiche è poi quello di inserire nei modelli di sviluppo dei progetti virtuosi di ridotto impatto e dimensioni, per poter promuovere l’intero progetto come “sostenibile”.
In questo sistema, talvolta purtroppo sono i diretti rappresentanti delle popolazioni locali ad avere un ruolo centrale, il cui obiettivo principale è spesso quello di garantire miglioramenti economici immediati per i propri elettori, non importa se attraverso attività che causano un degrado dell’ambiente e della qualità emozionale del turismo”.
“Le strategie per un turismo di effettiva sostenibilità dovrebbero essere fissate e perseguite innanzitutto a livello nazionale e internazionale, per evitare queste distruzioni più o meno totali del territorio da parte delle popolazioni locali e dei loro rappresentanti. Purtroppo non esistono “cabine di regia” nazionali o transnazionali per il turismo, o se esistono funzionano davvero male”.
C’è poi il caso in cui il passato non è solo vecchio ma anche superato. Pensiamo ai tanti piccoli impianti di bassa quota ormai dismessi e arrugginiti. Cosa ne facciamo?
“L’aumento delle temperature, soprattutto di quelle alpine, è stato indubbiamente la causa prima della chiusura di tanti impianti leggeri di bassa quota, seggiovie e skilift. Ne esistevano però anche molti in alta quota, ma sono stati chiusi e abbandonati per altri motivi, decisamente meno giustificabili.
Molti degli impianti chiusi a bassa quota potrebbero ancora funzionare per periodi brevi, nei mesi in cui le temperature permettono la neve a modeste altitudini. Questo sarebbe possibile in quanto i costi di esercizio e di manutenzione di questi impianti sono contenuti e la clientela soprattutto locale non mancherebbe. Penso che dovrebbero essere i Comuni e le Comunità montane a prendersi carico di queste vecchie seggiovie e di questi skilift abbandonati, studiandone nuove possibilità di utilizzo, anche estive. L’impatto di questi impianti, ovviamente se non ridotti a rottami fatiscenti, se confrontato con quello degli impianti pesanti moderni tipo seggiovie a sganciamento e cabinovie, con stazioni di arrivo e di partenza simili a catene di montaggio industriali, è davvero trascurabile”.
“Poi c’è un’altra causa, diversa dal clima, per quanto riguarda l’abbandono dei vecchi impianti leggeri in quota. La causa sta nella scelta di sviluppare un modello di turismo invernale di massa sempre più artificiale: quello delle città in montagna in alta quota, basato su impianti di grande portata e veloci piste autostrade di neve rigorosamente artificiale per poter programmare con largo anticipo la stagione invernale e poter smaltire migliaia di passaggi.
Se si volesse davvero sviluppare un turismo dello sci di effettiva sostenibilità bisognerebbe progettare solo piccole stazioni in quota. Stazioni con una precisa identità, dotate di impianti leggeri che richiedono investimenti contenuti. Sulle Alpi per fortuna di queste stazioni ce ne sono ancora. Basta cercarle. Gli impianti di queste piccole stazioni sono caratterizzati da costi di gestione bassi e prevalentemente di tipo variabile che permettono di tenerli chiusi senza generare perdite quando manca la neve naturale. Esse permettono ancora quel rapporto diretto tra ospitanti e ospiti che dovrebbe essere alla base di un’esperienza turistica di qualità”.
A proposito di piste: gli impianti sciistici sono ancora il fulcro dell’economia delle località montane, oppure – come si è visto in questi tempi del covid – si può pensare di puntare su altre attività legate alla montagna d’inverno, come lo sci alpinismo e le ciaspole?
“Se gli impianti potranno riaprire le masse ritorneranno ad utilizzarli, seppur per periodi sempre più ridotti dell’anno e per un numero di giornate sempre più basso. A causa degli alti costi degli skipass e del fatto che lo sci su piste di neve artificiale, salvo quello agonistico, esso interesserà sempre di meno le nuove generazioni.
La chiusura degli impianti legata alla pandemia ha indubbiamente influenzato lo sviluppo dello scialpinismo e dell’uso delle ciaspole. Questo è stato un bene: meglio una platea di scialpinisti neofiti che di pistaioli da neve artificiale. La maggior parte dei nuovi scialpinisti sono giovani che avranno tutto il tempo per migliorare e maturare. Penso che il futuro sia di uno sciatore eclettico: scialpinista e al tempo stesso frequentatore di impianti leggeri, con tracciati segnalati e messi in sicurezza per la pratica dello sci fuori pista”.
Lo scialpinismo è del resto in crescita, e spesso file di scialpinisti senza fantasia si accalcano sugli stessi percorsi non appena scende la prima neve. Ti preoccupa l’attenzione crescente verso questa attività? Ci vedi dei rischi?
“Lo sviluppo dello scialpinismo in quasi tutte le sue forme (tutine veloci che risalgono itinerari di neve battuta, scialpinisti poco esperti che seguono le stesse tracce sia in salita che in discesa, scialpinisti atleticamente dotati che si cimentano su itinerari difficili) non mi preoccupa affatto. Anzi, lo ritengo positivo, segno di maturità se non raggiunta almeno in fieri, da parte di molti sciatori.
D’altra parte, il sovraffollamento scialpinistico si verifica solo per gli itinerari classici e credo sia giusto sopportarlo. Certo sarebbe bello scendere dappertutto su pendii non tracciati da centinaia di sciatori e, ancora peggio, da ciaspolari, ma è un prezzo che bisogna pagare: siamo in troppi su questo piccolo mondo!”
“Con l’aumento del numero di scialpinisti ci saranno purtroppo sempre più incidenti perché qualsiasi attività si svolga in montagna comporta dei rischi. Si tratta di minimizzarli non con divieti ma favorendo una maturazione personale attraverso l’esperienza. Ad esempio, gli scialpinisti dovranno rendersi conto che gli incidenti a causa di slavine sono tipici del periodo invernale e molto meno di quello primaverile.
Un particolare interessante e positivo è che lo scialpinismo interessa sempre di più l’universo femminile. Ragazze sole o con amiche o con il loro compagno che talvolta è meno bravo di loro si incontrano durante gite anche lunghe e impegnative. Bellezze nella bellezza della montagna. Livia Bertolini Magni, grande sciatrice di montagna degli Anni Trenta, ne sarebbe indubbiamente fiera”.